Che cosa è il karate?

Tratto dal libro: “Karate-Do” di Tatsuo Suzuki
edito da Pelham Books-Londra,1967
Traduzione e commento di Antonio Sartini

Il Karate è fondamentalmente un allenamento per riportare una persona allo stato naturale della mente con cui è nato, disperdendo le illusioni.

Nel Fudochishinmyoroku, un capolavoro nel quale il maestro zen Takuan insegnava a Tagyu Tajimanokami l’essenza del kendo (scherma giapponese) attraverso il buddismo zen, un lavoro altamente apprezzato dai praticanti di kendo e delle altre arti marziali, Takuan parla della mente reale e della mente falsa e materiale come segue:

“La mente reale è un’innata mente pura e la mente convenzionale è una mente macchiata dal pensiero peccaminoso e dalle impressioni acquisite nell’esperienza della vita. Le arti marziali – egli dice – aiutano a riportare questa mente impura e macchiata, nel suo stato naturale di purezza come era alla nascita”.

Lo scopo delle arti marziali è questo: se la nostra mente, quando effettuiamo un attacco, viene pervasa dall’idea del contrattacco dell’avversario, non possiamo combattere con la completa libertà, perché non siamo concentrati sulla nostra azione, ma ci domandiamo se l’avversario calcerà contro il nostro pugno e così via. Allo stesso modo mentre pariamo non possiamo contrattaccare in maniera appropriata , con la mente vuota, se siamo preoccupati dal nostro stesso bloccaggio a causa della paura di venir atterrati da un calcio o da un pugno del nostro avversario.

Un bambino non ha questo complesso di paura. Una persona che si salva per miracolo da un investimento automobilistico rimarrà immobile, i suoi arti gelati dalla paura. Un bambino continuerebbe a muoversi innocentemente perché non ha il complesso della paura.

Una volta qualcuno chiese ad un famoso esperto di kendo:

-Cosa faresti se attaccato improvvisamente?

-Quando sarò allarmato, andrò avanti!- Egli replicò.

In una simile situazione un uomo comune indietreggerebbe inconsciamente.

Questo esperto è capace di agire liberamente in ogni momento ed in ogni occasione, perché ha la mente vuota, libera dalle illusioni della vita.

L’essenza del Budo, quindi, è avere una pura, mente vuota, come alla nascita, libera da dubbi, paure e delusioni in accordo con il maestro zen Takuan.

Se la nostra coscienza è troppo attaccata alla nostra azione, ciò accade se è attaccata al nostro pugno mentre lo tiriamo o se è ossessionata solo dalla parata mentre pariamo, noi non potremo lavorare liberamente.

Le nostre idee, i nostri pensieri, non devono essere attaccati ad alcunché. Non dobbiamo permettere alla nostra mente di essere coinvolta in qualcosa.

Guardando un fiore ammiriamo la sua bellezza. Ma se ci domandiamo perché questo fiore è così bello o da quanto è sbocciato ciò significa che stiamo iniziando ad avere un attaccamento mentale al fiore. Guardando un fiore od un’altra cosa, solo come esso è per il suo aspetto, nessuna cosa rimane nella mente. Questo è ciò che significava una mente pura e reale.

Similarmente, un’azione, come un pugno od una parata, deve aver luogo naturalmente sorgendo da una mente pura, vuota. Questo è uno dei precetti dello zen.

Si è detto che lo scopo del karate è vincere se stessi. Ciò può essere conseguito solo se si possiede una mente pura. Se non siamo attaccati a qualcosa, potremo accettare ogni cosa.

Dobbiamo essere liberi dagli attaccamenti, dall’idea di sacrificio o sofferenza nella pratica, in questo modo possiamo resistere alla fatica ed alla sofferenza e ciò significa che abbiamo vinto noi stessi.

Commento al testo

Più volte in palestra mi sono confrontato con i compagni di allenamento su discorsi che tendevano al rapporto tra tecnica esteriore ed atteggiamento interno della pratica del karate.

Circa venti anni fa ho tradotto il paragrafo che mi appresto a commentare che può essere un valido punto di partenza per i quesiti che spesso mi vengono rivolti fuori e dentro al dojo.

Il M° Tatsuo Suzuki è uno dei più eminenti esponenti del karate wadoryu mondiale. Allievo diretto del M° Hironori Ohtsuka, fondatore del nostro stile, e pioniere del karate wadoryu in Europa, da molti riconosciuto quale erede putativo di Ohtsuka, senza nulla togliere al figlio M° Jiro Hironori II° Ohtsuka che è il reale successore designato dallo stesso padre alla guida dello stile.

Il M° Tatsuo Suzuki ha studiato la dottrina zen con Gempo Yamamoto, un monaco zen molto famoso, e con Soyen Nakagawa1, questo spiega forse la definizione che lo stesso Suzuki da del Karate. In una intervista2 rilasciata alla fine del 1981 il M° Suzuki ha detto di aver praticato per circa dieci anni meditazione zen presso il monastero buddista di Ryutakuji vicino Tokyo.

Confrontando un’altra ventina di definizioni di “cosa sia il karate”, redatte dai più importanti maestri del nostro tempo, ci si accorge che nessuno arriva a formularne una altrettanto profonda. Personalmente ritengo tale definizione la più “affascinante” in senso assoluto anche se poi non è altrettanto semplice da comprendere.

In effetti è una definizione molto legata allo zen e come tale è pressoché impossibile da spiegare totalmente con la logica del pensiero razionale va, in un certo modo, anche intuita.

Innanzi tutto va precisato che il karate non è zen e può essere praticato nella completa ignoranza dei concetti che contraddistinguono questo ultimo. Viceversa un adepto zen vive l’eventuale pratica del karate con lo spirito che lo contraddistingue in tutte le cose della vita quotidiana.

La diatriba del rapporto tra zen e il karate, è stata fonte di infiniti dibattiti, a mio parere e nel limite delle mie conoscenze, la più esaustiva e succinta critica italiana, apportata a questo aspetto, è stata scritta da Ennio Falsoni3, allievo del M°Shirai ai primordi del karate shotokan italiano e vicecampione del mondo di kumite a squadre nel 1972, diventato poi uno dei maggiori promotori della kick boxing.

Partendo da una affermazione del famoso M° Masutatsu Oyama, fondatore dello stile Kyokushinkai, che nel suo libro “This is karate” dice che “il karate è zen”, Falsoni si chiede fino a che punto zen e karate possono essere considerati indissolubili.

Oyama afferma implicitamente che il karate è Zen perché nel karate si ricerca uno stato mentale tipico dell’adepto zen :lo stato mu o del vuoto mentale.

Altri maestri hanno poi ribadito nei loro scritti l’importanza dello stato mentale, la mente vuota, che il praticante di karate deve ricercare affinché la sua tecnica abbia successo.

Falsoni replica che in dieci anni di pratica non aveva mai sentito parlare di legami zen-karate, fatta salva la leggenda di Bodhidarma, e che nessuno maestro giapponese aveva insegnato come raggiungere lo stato di mushin (quando la tecnica “esce” inconsciamente, prima ancora di essere pensata). Tuttavia diversi atleti riuscirono ad affermarsi lo stesso in competizioni internazionali e qualche volta è successo loro di agire in stato di incoscienza, in modo riflesso ed automatico. Questo però è dipeso unicamente dalla ripetizione infinita di una determinata tecnica, come avviene anche in sport come la pallacanestro, senza dover fare ore e ore di zazen per migliorare la tecnica.
Dopo una attenta riflessione storica, Falsoni afferma che l’analogia tra zen e karate è più terminologica che sostanziale poiché il termine Kara è riferito allo stato mentale ideale del karateka che agisce in maniera riflessa, inconscia, senza che ciò dipenda dalla sua volontà. Mentre il termine Sunyata o ku (vuoto, vacuità) è un concetto buddhista metafisico secondo cui tutti i i principi basilari della vita emanano dall’interno di un infinito e primordiale caos.

Secondo Falsoni la tecnica di karate migliora solo con l’allenamento e non con le letture o quelle che lui chiama “pratiche zeniste”.

Infine è interessante riportare per esteso la conclusione : <<Possiamo perciò concludere che il karate associato al buddismo zen sia un’innovazione moderna. Non crediamo però che questo sia “un tentativo di dare ad una tecnica mortale le vesti di una coscienza morale” come scrive lo Haines, bensì il logico adattamento del karate alla tradizione marziale del Giappone, e ai suoi nuovi insegnamenti universali (Ji-Ta-kyo-Ei – amicizia e mutua prosperità del judo di J. Kano e l’Amore universale dell’Aikido di M.Ueshiba). E sono proprio essi, e non il concetto di vuoto mentale, a riunire karate e buddismo zen. Anche il karate ha come fine ultimo il Bene universalmente inteso; ma se il fine è identico, diverse sono le strade che ad esso conducono>>.

Personalmente credo che la posizione di Falsoni sia sotto un certo aspetto insindacabile, diversamente si potrebbero trovare mille altri motivi o spiegazioni per arrivare alla stessa conclusione.

Praticare la meditazione zen per migliorare il karate non è fare Zen. Cinque minuti di Mokuso prima o dopo una seduta di karate non garantiscono alcun miglioramento tecnico. Per imparare a rilassarsi e a concentrarsi bastano le tecniche del trainig autogeno, tanto care alla psicologia dello sport, e che possono offrire un vantaggio per la prestazione ma che nulla hanno a che fare con lo zen.

Ma appurato il bisogno di una critica, per così dire “laica”, del rapporto tra karate e zen, passerei ad analizzare il contenuto di quanto scritto dal M° Suzuki alla luce dei concetti zen.

Il M° Suzuki paragona la pratica del karate alla pratica dello zazen, in entrambi i casi seguendo i principi di hishiryo (il pensiero senza pensiero, al di la del pensiero) e mushotoku (senza interesse ne spirito di profitto) si può arrivare allo stato naturale della mente.

Lo stato naturale della mente è quella condizione in cui il nostro background culturale non influisce sulla costruzione mentale (discriminazione o impulso) di un pensiero o di una azione e pertanto non da luogo ad una emotività incontrollata e limitata dalla nostra coscienza.

Supponiamo di poter guardare il fiore citato dal M° Suzuki , l’immagine viene captata dal nostro cervello e torna nei nostri pensieri rielaborata dalla educazione che abbiamo ricevuto. Pertanto otteniamo una immagine convenzionale che ci fa ricordare che è un vegetale definito fiore, magari pensiamo al nome proprio che possiede, al tipo di fioritura, al profumo, alle modalità di coltivazione o a episodi correlati. Immaginiamo ora di ricevere solo l’immagine di questo oggetto tagliando fuori ogni considerazione razionale legata alla nostra memoria, interrompendo i circuiti di rielaborazione, otterremmo una immagine pura da definizioni che potrebbe essere paragonata alla mente reale.

La mente impura invece è quella convenzionale, quella che è soggetta a desideri, cupidigia ed ignoranza, quella che viene condizionata dalle esperienze imposte. Nell’esempio del M° Suzuki possiamo riconoscerla in un attacco portato con il desiderio di creare danni, con la bramosia di vittoria e con l’ignoranza di chi vuole ragione ad ogni costo. Viceversa potrebbe essere effettuare una tecnica di difesa con la paura di essere colpiti, quindi con il desiderio dell’incolumità, specie se la colleghiamo alla sensazione del dolore che potremmo subire.

Raggiungere la mente pura permetterebbe di raggiungere quella mente vuota dalle illusioni della vita, poiché tutto ciò che viene dalla logica razionale è una illusione nel concetto zen. La stessa sofferenza, la fatica o il sacrificio diventano solo illusioni da superare ma dare una spiegazione razionale di ciò è difficile. Lo zen non può essere scritto, può essere solo praticato e le immagini che otteniamo sono solo esperienze soggettive, la realtà è in noi stessi e solo noi possiamo sperimentarla nessun altro può svolgere il nostro compito introspettivo.

Di tutte le cose esiste un aspetto relativo correlato all’aspetto socio-culturale dei fenomeni ed un aspetto assoluto legato ad una intuizione introspettiva personale.

Così come esiste un “io soggettivo”, il nostro ego, legato ai cosiddetti residui karmici (cioè al risultato dei nostri pensieri e delle nostre azioni) e preda degli eccessi di desiderio, esiste un “io oggettivo”, il cosiddetto “io osservante”, che può essere presente senza risentire dei limiti delle illusioni.

La pratica dello zazen quando viene effettuata senza ricercare risultati (mushotoku) e andando al di là del pensiero razionale (hishiryo) può far approdare alla nostra mente pura. Ma questa mente pura, l’io osservante, non è qualcosa da raggiungere al di la del nostro ego, è qualcosa che ognuno di noi già possiede ma non è abituato a percepirlo. In realtà non esistono due io separati, non c’è un angolo della nostra mente da raggiungere, è la visione introspettiva che permette di superare ogni dualismo.

Durante lo zazen il pensiero non viene bloccato, i pensieri passano come nuvole nel cielo, respirando si manifestano, espirando si lasciano andare. Il praticante è fermo e le nuvole passano.

Durante la pratica del karate (o di qualsiasi altra attività) il praticante si muove come un
treno e i pensieri passano come i paesaggi senza potersi soffermare.

Sia che io stia fermo sia che io mi muova, i pensieri passano attraverso la mente senza soffermarsi, entrambe le condizioni coincidono con una mente osservante.

Durante lo zazen o durante la pratica del karate non è necessario dire “Non devo pensare”, perché questo è pur sempre un pensiero! Bisogna essere naturali, lasciare che affiori il subconscio. Come dice il M° Taisen Deshimaru4 “bisogna per un attimo lasciare la presa, lasciarsi andare completamente, come in fondo all’acqua, per poi risalire e tornare a galla”.

Lo zazen è un tipo di meditazione in cui il controllo della postura ha una enorme importanza, così come la respirazione, anche gli occhi sono aperti perché lo spirito rimane sempre vigile e presente.

Corpo e spirito non sono separati. Se si fa attenzione a qualcosa allora il corpo e la coscienza si concentrano. E lo fanno contemporaneamente. Se ci si concentra sullo spirito
allora anche il corpo si trasforma. Se il corpo non è concentrato, si indebolisce insieme con il tono spirituale. Se il corpo si concentra, lo spirito fa lo stesso. Non ci si può limitare ad un solo aspetto.

Lo zazen può avere delle enormi analogie con la pratica del karate che richiede sempre mente e corpo all’unisono. Basti pensare al significato del KIAI, unire il corpo allo spirito.

Sono convinto che ogni karateka dopo un certo periodo di pratica, magari solo per stanchezza, arriva a mollare il controllo ragionato delle azioni pur perseguendo la tecnica che si era prefissato all’inizio del movimento. Non è difficile, a mio parere, che durante la pratica del karate si riesca ad “aprire la mano del pensiero” e lasciando fuoriuscire la tecnica. Così come la concentrazione sulla posizione o sul movimento favorisce il pensiero senza pensiero. Se ogni volta che devo compiere un’azione mi metto a riflettere, sarà impossibile un’azione efficace.

Più riflettiamo e più l’avversario avrà la possibilità di essere vincente sulle nostre azioni.
Coltivare il proprio io osservante favorisce il non attaccamento ai pensieri ed alle azioni.
Così combattere a rischio della propria vita è facilitato dal non essere attaccati alla vita. Questo è, a mio parere, il principale motivo per cui lo zen ha avuto grande successo nella casta dei Samurai. I samurai spondevano ad un codice di onore e dovevano essere sempre pronti a dare la vita per il proprio signore, come avrebbero fatto ad agire solo per incoscienza? Si drogavano o agivano coscientemente sublimando l’attaccamento alla vita ?

Miyamoto Musashi (1582-1645), il più grande schermidore che il Giappone abbia prodotto, vincente in ben 68 duelli mortali, in una breve poesia espresse l’idea del mushin (non pensiero, inconscio, mente priva di pensiero):

Sotto la spada levata alta
C’è l’inferno che ti fa tremare;
Ma vai innanzi
E troverai la terra della beatitudine

Di fronte ad un combattimento imminente il combattente deve liberare la mente da qualsiasi preoccupazione. La sua mente non deve rimanere fissata né sulle intenzioni dell’avversario, né sulle proprie, ma restare “vuota”, in modo che corpo e mente, in perfetta simbiosi, agiscano conseguentemente alle circostanze.

Nello stato di mushin si supera l’io relativo, il nostro ego, subentra l’io osservante libero dallo stato di paura, di morte e di fallimento.

Vincere noi stessi non vuol dire non aver amor proprio, o associarsi ad una setta di autolesionisti, significa superare il limite del nostro ego passando il controllo al nostro io osservante che non è un elemento passivo del nostro essere, ma è il controllo di noi stessi con la mente svuotata dalle illusioni.

Antonio Sartini

1Suzuki T. KARATE-DO – Pelham Books Limited, London 1967;
2Ballardini B. “Tatsuo Suzuki:l’anima del wado-ryu – un’intervista esclusiva” inserto FIKDA –
Samurai Dic 1981;
3Falsoni E. Il KARATE MODERNO – Feltrinelli Editore, prima edizione maggio, 1974;
4Deshimaru T. Domande ad un maestro zen -Ubaldini Editore – Roma 1983;